Ventolino Giramondo

Chi ha mai detto che si deve vivere per il sabato e la domenica?
Il tempo liberato dal lavoro è un’opportunità esattamente eguale a quella contenuta nel tempo utilizzato per il lavoro. E dunque…

Una domenica in campagna

RAFFAELLO E IL NIDO

 

Dedicato a Francesco,
amico dei bambini

Rocca di Neto, 3 Aprile 2007

 


Erano i giorni della merla; i più freddi dell’anno.

Gli alberi apparivano dalle finestre di casa rinsecchiti; alzavano i rami al cielo come braccia in cerca di aiuto.

Raffaello, nel calduccio della sua casa, guardava da dietro le finestre e il suo respiro appannava i vetri.

Tra poco si doveva andare a scuola; silenziosamente, ripeté la poesia che la maestra gli aveva dato a scuola da imparare. Avrebbe fatto bene il pomeriggio precedente a dedicarsi un po’ di più a ripeterla; adesso i minuti passavano veloci, non si riusciva a rallentarli e le strofe sembravano come sapone: scivolavano troppo.

“Speriamo bene…” pensava il piccolo.

Era quasi alla fine della terza o quarta ripetizione, la mamma chiamava per la colazione dalla cucina, quando il suo sguardo cadde tra i rami secchi; in un groviglio apparve un nodo fitto fitto di rametti. Vuoto; sembrava un canestro intrecciato alla meno peggio da qualcuno e lasciato lì per sbaglio, lassù invece che su un tavolo o in un ripostiglio. Raffaello non aveva mai visto da vicino un nido; era la prima volta e pieno di stupore per il fatto di non essersene accorto prima, fissò i suoi grandi occhi verdi verso il nido; dormivano là dentro o non c’era nessuno?

Faceva un gran freddo e certamente non era una gran cosa bella stare lì fuori. Perché mai non avevano pensato gli uccelli, che avevano fatto la loro casa lassù sui platani, a costruirsela in qualche posto un po’ più caldo?

La voce della mamma continuava a chiamare: “Raffaello, Raffaello; è tardi!”.

A malincuore Raffaello si staccò dai vetri e prima di raggiungere la cucina lanciò l’ultimo sguardo al nido che era lassù tra i rami dei platani infreddoliti.

A scuola andò benino; tranne due o tre interruzioni, Raffaello riuscì a recitare la poesia imparata con disinvoltura e espressione giuste, tanto da meritarsi le lodi dell’insegnante. Subito ritratte, quasi cancellate dalla rimproverata beccatasi a seguito del disordine che aveva creato all’uscita da scuola, quando in fila, due dita in bocca, provò a superare con un fischio il suono trillante della campanella.

Il piccolo incassò il rimprovero ma non ci restò poi tanto male; tutti i suoi pensieri quel giorno erano rimasti concentrati sulla scoperta della mattina; man mano che passava il tempo perfezionava il suo progetto; doveva assolutamente sapere se il nido era vuoto o ancora abitato.

Avrebbe escogitato un modo per buttarlo giù dai rami e, una volta capovolto, chissà che sarebbe venuto fuori!

Raffaello alla finestra

Era passata velocemente la settimana.

A scuola era andata benino; neanche Raffaello sapeva come poteva accadere che tutto filava molto liscio, aldilà del suo impegno, a dire il vero, molto ridotto. Gli succedeva di capire subito quello che sentiva spiegare a scuola ma poi a casa c’erano mille cose da fare: la lezione di inglese, quella di pianoforte, la palestra, il catechismo, le feste di compleanno, le scorribande a casa della nonna con i cuginetti. Non c’era molto tempo per rifare le strade che la maestra aveva percorso per spiegargli le cose. Succedeva così che per una settimana era in grado di ripetere tutto per filo e per segno poi si imbrogliava e non era sicuro come qualche giorno prima; era come se le notizie gli fuggivano dalla testa. Come fare per non perderle?

Ritagliava, era vero, poco tempo per lo studio ma finora era andato tutto bene. Poi, alla scuola media, avrebbe imparato a studiare di più. Per adesso correva dietro mille attività. Tutti correvano a casa. E tutti sognavano la domenica perché avrebbero dormito di più, avrebbero fatto le cose con più calma.

Tutti vivevano aspettando la domenica: la mamma, la maestra, l’istruttore della palestra, l’insegnante di inglese, anche i compagni.

Già il sabato si sfregavano le mani: “Domani è domenica” e sospirando chiudevano gli occhi soddisfatti.

Raffaello pensava che poi sarebbe stato lunedì e si sarebbe ricominciato e via via così.

Solo il papà faceva diversamente; era più sorridente di tutti, sia il lunedì che la domenica; guardava tutti correre senza che lui corresse con gli altri. Ed era più sereno di tutti.

Quella domenica d’inverno il papà, spento il rasoio, dal bagno chiamò: “Raffaello, Raffaello! Veloce, preparati perché si va in campagna a prendere l’acqua alla fonte e il pane caldo. Io e te da soli; la mamma e il fratellino restano qui perché fa freddo; noi uomini andiamo.”

Raffaello sentì due tuffi al cuore: uno dietro l’altro. Da una parte era felice che il papà lo considerava un uomo, come lui, diverso dal fratellino che frignava attaccato alla mamma; dall’altra avrebbe detto addio alla festa di compleanno del compagno di scuola e alle scorribande che si organizzavano in simili circostanze tra ragazzini. Tornati dalla gita in campagna, avrebbe dovuto fare di pomeriggio quanto aveva da fare la domenica mattina e che doveva, per via di quell’irresistibile invito, rinviare al dopopranzo.

Fu pronto in un attimo; un rombo di motore e la macchina partì.

La campagna era poco distante dalla città. Sembrava che l’una e l’altra dormissero; lungo le strade che Raffaello percorreva nei giorni in cui andava a scuola le saracinesche erano abbassate; tutto era silenzioso; sembrava che tutti fossero scappati via dalla città e che l’avessero lasciata libera per Raffaello e il suo papà. Sembrava anche come quando Raffaello saliva sul palcoscenico del teatrino scolastico durante le prove: solo lui a recitare senza pubblico. Così come adesso.

Anche la campagna dormiva. Era tutto bagnato; bastava passare un ditino lungo un muro e questo si bagnava. Solo qualche gallina coraggiosa attraversava veloce lo spiazzo del suo pollaio per rifugiarsi subito al riparo; faceva freddo e la gallina era proprio buffa perché con le sue alucce corte e il suo passo veloce sembrava un’amica della mamma, la più pettegola, che rientrava a casa tra una faccenda e un’altra.

I camini fumavano e un filo di fumo si alzava da ogni camino del borgo. C’era profumo di caminetto in tutta l’aria; Raffaello sapeva che anche il suo piumino avrebbe mandato il profumo del caminetto per i due giorni seguenti e i suoi compagni gli avrebbero chiesto, un po’ invidiosi, dove era finito per avere quel bell’odore addosso.

Il papà conosceva un po’ tutti in quel posto; ci veniva da piccolo anche lui con il suo papà, che era stato anche il nonno prediletto di Raffaello. Il papà entrava in quasi tutte le case del borgo; là ancora si usava tenere la chiave nella toppa; bastava girarla e si entrava. In quasi tutte le case era sempre un bel camino o una bella stufa accesi ad accoglierli. Raffaello era felice di vedere con quanto affetto il suo papà era accolto da tutti gli abitanti del borgo; quando lo salutavano gli davano le loro grandi mani sulle spalle o addirittura lo abbracciavano; erano mani dure e Raffaello lo sapeva perché sempre quelle mani avevano accarezzato anche lui, ma non facevano male quando lo sfioravano sulla testa, tra i capelli o quando lo sollevavano da terra per vedere se era cresciuto, se era diventato più pesante. Raffaello sentiva lo stesso profumo di camino del suo piumino negli abiti di questi amici; vestivano diversamente da quelli di città; erano sempre in pantaloni e maglioni più comodi dei suoi e non avevano molta paura di sporcarli, di stropicciarli. Raffaello li invidiava un po’ per questo; li vedeva salire a cavallo, correre sotto la pioggia, tornare dai campi sporchi di fango e per niente preoccupati. Se fosse tornato lui così a casa, chissà che avrebbe detto la mamma?

Gli avrebbe detto che così non si fa, così non ci si riduce!

Quando, però, Raffaello in città avrebbe potuto correre felice e libero dalla preoccupazione di rompersi i pantaloni?

Chissà?


Raffaello, sceso dalla macchina con i recipienti, diede una mano al papà per riempirli alla fonte.

Non c’era nessuno e il piccolo si divertiva a vedere il suo papà cercare di fare entrare l’acqua nelle grandi bottiglie senza che il vento la buttasse fuori. Tirava infatti un vento dispettoso che spingeva l’acqua tutta da una parte e il papà si mise a fare una specie di gara e poi lo invitò a fare lo stesso.

Una bottiglia l’avrebbe riempito Raffaello e una lui, il suo magnifico papà.

Avrebbe vinto chi non avrebbe fatto bagnare il vetro esterno dei recipienti.

“Dai, Raffaello, provaci tu!” faceva il papà cui il vento dispettoso aveva spinto, fin sui pantaloni, mille goccette d’acqua.

Raffaello ci provò ma il vento lo investì in pieno e sul viso arrivò una gelida doccia di goccioline.

Il piccolo trasalì e il papà con un sorriso lo tranquillizzò asciugandolo e frizionandolo come la mamma faceva con il fratellino più piccolo quando era l’ora del bagnetto.

Raffaello fu felice di quel piccolo incidente che gli aveva permesso di avere solo per lui tutte quelle cure che venivano ormai riservate quasi sempre al fratellino.

“Sembri un pulcino, il mio pulcino!” fece il papà e lo baciò forte sui capelli e Raffaello fu felice di sentirsi tutto uno con il suo papà.

“In macchina!” fece il papà.

“Adesso si va al forno!”

Sistemati i bottiglioni in macchina, attenti perché non si rompessero, Raffaello e il papà arrivarono presso una casina bianca che pareva infarinata da poco. Da lì veniva un profumo di pane caldo che, come dire?, inteneriva il cuore. Era un profumo che rimandava al ricordo di casa, di pane e cioccolata o di pane e formaggio e Raffaello sentì per un attimo la mancanza della mamma. Fu un baleno perché fu subito distratto dall’enorme bocca del forno. Era veramente grande e rossa; gli tornarono alla mente le parole della maestra che, per mettere a tacere le compagne più pettegole, ricordava loro come fosse probabile che le loro bocche fossero considerate dei forni, addirittura roventi.

Raffaello si trovò una pagnottella calda con un filo di zucchero tra le dita e il calore del pane, insieme al dolce dello zucchero, gli misero dentro un’allegria senza fine.

Successe che il papà, per poter pagare, gli passò il cartoccio del pane comprato e Raffaello sentì il calore avvolgerlo come quando stava sotto la copertina soffice del suo letto; in quella domenica fredda d’inverno era una sensazione bellissima.

Era così felice di quella condizione!

All’improvviso, però, i suoi occhi finirono su su per i rami degli alberi rinsecchiti e l’immagine di un altro nido lo colpì; subito si ricordò di quello che aveva visto qualche giorno prima dai vetri di casa sua e del suo progetto. Cambiò umore; da felice e tranquillo che era, cominciava a sentirsi agitato dall’idea di dover capovolgere anche questo altro strano canestro che aveva visto. Il papà si accorse subito del cambiamento di umore di Raffaello e gli chiese il perché.

Il calore del pane gli ricordò che si trovava in campagna in quella magnifica mattina con il suo papà sorridente e si lasciò andare: confidò al papà le sue scoperte e il suo piano di capovolgimento dei nidi.

Il papà lo sentiva parlare e stava in silenzio; alla fine quando Raffaello finì, gli chiese: “Adesso posso parlare io?”

“Sì” disse Raffaello e il papà cominciò: “Nei nidi che vedi qui in campagna e lì in città adesso non vive nessuno; è inutile capovolgerli; non cadrà nulla. Se tu abbatti i nidi, distruggi la casa che gli uccelli si sono costruiti per i periodi che vengono a trascorrere da noi. Adesso sono migrati, sono andati via per raggiungere posti dove fa caldo e dove è possibile sopravvivere perché lì non fa il freddo che fa qui. Lo hai studiato a scuola ma non ti eri accorto che questi nidi hanno a che fare con la migrazione degli uccelli. Quello che studi ha sempre a che fare con quello che ti succede nella vita; devi pensarci e riflettere un po’ di più. E poi, se abbatti un nido, ricordati che offendi dei miei preziosi maestri!”

“Ma che dici, papà?” chiese Raffaello.

“Io ho imparato da loro che ogni giorno, il lunedì, il sabato, la domenica, ha il suo momento di lavoro e il suo momento di gioia. Ogni giorno dobbiamo usare tutte le nostre capacità perché ogni giorno è una palestra nella quale usare tutti i muscoli che abbiamo; non dobbiamo dividere il lavoro dalla gioia perché anche il lavoro ci dà gioia e la gioia ce la costruiamo con il nostro impegno. Secondo te, quando gli uccellini cantano felici non lo sono dopo che, con il loro lavoro, si sono fatti il nido, si sono procurati il cibo?”

Raffaello ascoltava e capiva adesso perché il suo papà era sorridente sia quando era il momento di lavorare sia quando era il momento del riposo.

Tornati a casa, a Raffaello non importava proprio nulla di aver perso la festa di compleanno programmata a casa del compagno, scostò le tende e vide il nido tra i platani. Invece di abbatterlo, aveva deciso che lo avrebbe tenuto d’occhio per essere il primo a salutare il ritorno di quegli incredibili maestri del suo papà.


raffaello a tavola

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Il racconto è stato segnalato al concorso Fiabe città di Schwanenstadt SULLE ALI DELLE FARFALLE E DEI CIGNI

Le illustrazioni di questa fiaba sono di ROBERTA VISONE.